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La pratica dell’abitare viene metabolizzata in modo involontario, spesso vissuta come prassi quotidiana reiterata, refrattaria ad uno sguardo critico sugli spazi, e, conseguentemente sulle funzioni che questi ne consentono. Un costrutto complesso, ottenuto come risultante tra necessità, ergonomie, ritmi o più semplicemente abitudini e preferenze. E, se è vero che la velocità incrementale del cambiamento è un elemento fondante del contemporaneo, è altresì vero che la pratica dell’abitare vive di un’inerzia massiva e più delicata. La pratica dell’abitare gli spazi, infatti, subisce uno scarto lentissimo, minimo, ma graduale e costante; che diventa difficilmente misurabile nella quotidianità, ma che gradualmente raggiunge uno stato critico dove l’obsolescenza diventa misurabile. Lo spazio abitativo può quindi essere letto come un manufatto o un “documentum” in grado di descrivere non solo se stesso, ma anche sintetizzare una fase storica spesso riconducibile ad una specifica generazione, alle pratiche di vita esercitate e ai ritmi che queste producono. Il fatto che la casa, nella sua accezione patrimoniale, è per definizione oggetto che supera le generazioni e viene tramandato, vive la necessità di attraversare fasi critiche di rinnovamento e di rifunzionalizzazione. Fasi trasformative nel quale l’obsolescenza d’uso lentamente accumulata nei decenni viene scientificamente trattata. Il progetto architettonico diventa così il momento nel quale si rivela e si discerne ciò che conserva una funzione valevole da ciò che lo ha smarrito nel tempo, come base del processo creativo. La parte iniziale del lavoro è di natura semantica, una ricostruzione dei significati e individuazione dei cambiamenti di questi ultimi. Concetti apparentemente semplici come privato e privacy, spazio comune e condiviso, nucleo familiare e la sua estensione, sono solo alcuni dei termini elementari che, nel loro cambio di senso, dettano parte dei presupposti del processo trasformativo. La struttura residenziale preesistente a manica singola è stata da sempre oggetto di trasformazioni e ampliamenti importanti. Il nucleo originario di 4 stanze voltate del 1921 è stato esteso in differenti fasi nella lunghezza, sottoforma di aggiunta seriale di stanze in sequenza e allineate assialmente alle precedenti. Contemporaneamente il fronte rigido determinato a nord dall’impostazione su filo strada si contrappone al fronte sud su cortile privato, che nel tempo si è dotato di episodi diversi tra loro di crescita ed estensione degli spazi al fine di ibridare la distribuzione lineare a manica singola. Verande, terrazze e corpi bagni esterni hanno arricchito di frammenti il fronte interno al lotto, di cui una preesistenza è diventata il pretesto per l’intervento in oggetto. La nuova struttura è impostata come una torre aggiunta al corpo che visivamente si identifica come un oggetto unitario ma nel suo lato introverso organizza servizi igienici per due diverse unità abitative suddivise per piani. Inoltre la funzione di scambio al piano terreno con l’espansione del volume determina un ingresso indipendente per una piccola unità che in questo modo ritrova la possibilità di costituirsi come indipendente. Al piano il nuovo ingresso fortemente vetrata si configura come un vuoto nel volume massivo che apre gli ambienti del pian terreno verso l’esterno e con questi costruisce un dialogo forte. La distribuzione si configura come una soluzione semplice degli spazi, composti da un ambiente filtro e un bagno in entrambi i piani, nel quale il piano terra svolgendo il compito di ingresso ne trova una dotazione spaziale maggiore. L’onere contenitivo degli ambienti viene organizzato tramite la gestione dei pieni, delle murature e ispessimenti dei contorni, garantendo linee minimali e spazi contenitivi integrati nei volumi architettonici. La luce diventa il fattore descrittivo forte dell’intervento, che una volta all’interno dell’involucro trova spazi per fruire liberamente fino all’interno della porzione preesistente di abitazione grazie a pareti vetrate interne come quelle della doccia, che creano una connessione luminosa che dalla vetrata sul patio esterno trova continuità fino al nucleo interno. Carter di metallo scuro segnano la linea sottile che gestisce il confine materico tra il vuoto delle superfici vetrate e il pieno, dato dal mattone grigio, che nelle sua posa diventa eco delle aperture e degli allineamenti che esse disegnano. Il mattone come materiale proprio della tradizione costruttiva piemontese è impiegato nella sua accezione cromatica desatura. Il volume si imposta in modo netto sul terreno, generando una cesura misurabile con il resto delle superfici minerali, generando una fascia verde come elemento terzo e di filtro tra dentro e fuori lungo l’intero perimetro, ad eccezione del passaggio d’ingresso e d’uscita verso il patio dove i flussi generano la saldatura e la possibile estensione tra spazi esterni ed interni, che vedono nel patio l’addizione di una stanza extra e stagionale. L’intervento manifesta la propria natura di corpo aggiunto, evitando la mimesi formale e materica con il contesto. Le nuove regole di cui l’ampliamento si compone, ne sottolineano lo scarto temporale di circa un secolo e costituiscono un nuovo fulcro dal quale leggere in modo differente il manufatto residenziale a stecca della campagna piemontese. Una simbiosi tra archetipi tradizionali e forme pure accostate, che nella propria dicotomia restituiscono un’atmosfera sospesa tra minimalismo europeo e allusione zen orientali.


Villa Adriana
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